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Ogni rivoluzione tecnologica ha cambiato le regole del gioco. Ma chi ha saputo adattarsi ha sempre trovato un nuovo ruolo da giocare.
Nell’immaginario collettivo, l’Intelligenza Artificiale è spesso descritta come una forza oscura pronta a spazzare via milioni di posti di lavoro. Questa percezione è alimentata da titoli allarmistici che fanno leva sul panico e sull’incertezza più che sulla realtà dei dati. “L’AI sostituirà l’80% dei posti di lavoro”, “Addio impiegati: l’AI li renderà tutti inutili”, “Lavoreremo solo 3 giorni a settimana o saremo disoccupati a vita?”…
Questi sono alcuni dei titoli che popolano quotidiani, social e blog, generando un senso diffuso di angoscia sociale.
Il problema non è l’enfasi con cui vengono presentati, ma il totale e assoluto vuoto analitico che li accompagna. Questi articoli non distinguono mai settori, ruoli automatizzabili e non, attività che saranno assistite e quelle che effettivamente verranno eliminate. Il risultato di questa catastrofe mediatica è un messaggio di paura: o ti adegui o sparisci. In realtà, la verità è molto più sfumata e meno radicale.
Questo approccio propagandistico utilizzato solo per generare click mi fa venire in mente altri momenti storici in cui una nuova tecnologia veniva demonizzata per ignoranza o per difesa dello status quo. Lo si è visto con i computer, con internet, con i social, con l’automazione industriale. L’AI non fa eccezione: viene interpretata non come un potenziale strumento, ma come un agente ostile e autonomo che agisce per “rubare” qualcosa all’essere umano.
In un contesto di questo genere è fondamentale recuperare una visione lucida e informata, capace di distinguere tra ipotesi, paure e dati concreti. Solo con la conoscenza è possibile superare l’isteria collettiva e affrontare un imminente cambiamento con intelligenza strategica anziché con un panico irrazionale e immotivato.
Una delle distorsioni più comuni nei vari dibattiti sull’Intelligenza Artificiale riguarda a mio avviso la confusione tra l’automazione di attività e l’estinzione di professioni. È un grossolano errore concettuale che amplifica paure infondate e paralizza il pensiero critico e strategico.
La realtà è molto più articolata: l’AI non sistituisce i mestieri, ma trasforma i compiti all’interno dei mestieri. Mi rendo conto che la frase può essere non chiara a tutti quindi facciamo un esempio.
Il lavoro del giornalista… L’AI può automatizzare la redazione di articoli standardizzati (come report sportivi o bollettini finanziari), ma non può e con buona probabilità, non potrà mai sostituire la sensibilità editoriale, l’indagine critica, la capacità di costruire un’inchiesta, fare domande pertinenti a un’intervista o interpretare un contesto culturale.
Tutto ciò vale non solo per l’editoria, ma per una moltitudine di altri settori. L’AI può assistere, ottimizzare, velocizzare molte delle fasi del lavoro, ma ciò non implica che l’intera professione venga annullata. Anzi, i dati mostrano che in molti casi, la presenza dell’AI crea nuove funzioni, nuove responsabilità e nuovi ruoli ibridi.
Confondere l’automazione con la cancellazione di una professione è come dire che l’invenzione della lavatrice abbia cancellato il mestiere di chi lavava i panni a mano. Oggi possiamo dire che non è così; ha liberato tempo e risorse, permettendo alle persone di dedicarsi ad altro: all’educazione, alla creatività, allo studio o ad attività a maggior valore aggiunto.
Il vero nodo quindi non è la perdita, ma la trasformazione: un processo che richiede adattamento, formazione continua, apertura mentale. L’AI toglierà senso solo a quei ruoli che si rifiutano di evolvere, non a quelli che accettano la sfida del cambiamento utilizzando AI a proprio vantaggio.
Un aspetto poco discusso nel dibattito pubblico è che l’AI fa davvero paura solo a due categorie di lavoratori: quelli troppo verticali, ma soprattutto quelli troppo deboli per merito e che sono protetti da dinamiche non trasparenti. Ovvero specialisti incapaci di aggiornarsi fuori dalla loro nicchia perché non hanno sviluppato una mente capace di destreggiarsi in contesti trasversali e soprattutto persone che occupano ruoli per cui non hanno reali competenze, ma che si sono trovati lì per raccomandazione o parentela. Sì, specialmente queste persone farebbero bene a iniziare a preoccuparsi!
In Italia, Paese ancora fortemente ancorato a logiche di titoli, anzianità e posizionamento, più che di valore reale, l’AI sta diventando uno specchio scomodo. Non perché umili l’uomo, ma perché smaschera l’inutilità funzionale di molti ruoli. Se bastano 30 secondi con ChatGPT per ottenere un documento che richiederebbe a certi uffici 3 giorni e 6 firme, la domanda è lecita: serviva davvero quella posizione?
In questa luce, il timore verso l’AI non è paura del cambiamento, ma paura della trasparenza. Per la prima volta, una tecnologia è in grado di misurare (molto spesso in tempo reale), il valore prodotto rispetto al tempo impiegato, alla ridondanza operativa e al contributo effettivo.
Forse, paradossalmente, l’avvento dell’intelligenza artificiale rappresenta l’occasione per avviare, anche indirettamente, un processo di meritocrazia naturale. Non quella imposta per decreto, ma quella che emerge quando il sistema smette di tollerare l’inutile perché esiste un’alternativa oggettivamente più efficiente.
La paura è quindi giustificata solo in un senso: se il tuo ruolo esiste solo perché non sei in grado di poter fare altro e non sei in grado di reinventarti, non generi un valore aggiunto e rappresenti oggettivamente un peso perché non ti dedichi al tuo lavoro con passione e dedizione ma solo per arrivare alla fine del mese e prendere il tuo stipendio.
Chi è creativo non può aver paura di qualcosa che per definizione non è creativa. L’AI non ha intuizioni, si limita a svolgere compiti per come è stata addestrata a farli.
Una delle contraddizioni più evidenti nel dibattito sull’Intelligenza Artificiale è il fatto che molti lavoratori sembrano temere proprio ciò che, in teoria, dovrebbe alleggerirli.
Da sempre le innovazioni tecnologiche hanno come obiettivo quello di ottimizzare i tempi, ridurre gli errori, automatizzare i processi. Eppure, di fronte all’AI questa logica si rovescia. Se un tempo l’efficienza era desiderabile, ora diventa una minaccia. Ma perché?
Perché in molte organizzazioni sia pubbliche che private, la produttività reale non è mai stata una variabile dell’equazione. Si lavora o si finge di farlo per riempire orari, difendere ruoli, mantenere equilibrio tra competenze deboli e mansioni ripetitive. In questi contesti, l’arrivo di un sistema che può fare in 5 minuti ciò che un team impiega 3 giorni a consegnare non viene percepito come liberazione, ma come pericolo esistenziale.
Il vero problema, quindi, non è l’AI in sé; è che l’AI mette in discussione alcune attività il cui valore era già discutibile. L’automazione rende visibile l’assurdità di interi processi aziendali costruiti sulla lentezza, sull’intermediazione inutile, sulla ripetizione fine a sé stessa.
Ma c’è anche un altro aspetto ancora più profondo: la produttività crea spazio vuoto e il vuoto, culturalmente, fa paura. Chi lavora in aziende che non premiano l’iniziativa individuale, la creatività e il pensiero strategico si chiede: “Se l’AI mi libera 3 ore al giorno… Cosa farò di quel tempo? Sarò valutato per ciò che riesco a creare o per ciò che non ho più da fare?”.
In questa ambiguità si inserisce il vero paradosso: la tecnologica che potrebbe finalmente permettere agli umani di concentrarsi su ciò che conta, viene vissuta come un attentato alla sopravvivenza. Ma forse, il problema non è la tecnologia ma il modello culturale che ci ha abituati a lavorare per esistere, anziché per produrre valore.
L’introduzione degli ecommerce generò, a suo tempo, un’ondata di panico molto simile a quella che oggi accompagna l’Intelligenza Artificiale. Si temeva che i negozi fisici avrebbero chiuso in massa, che lo shopping reale sarebbe diventato obsoleto e che interi settori, dalla vendita al dettaglio alla logistica, fino ad arrivare al mercato immobiliare degli affitti dei negozi, sarebbero collassati.
Eppure, col senno del poi, oggi sappiamo che non è andata così… Gli ecommerce non hanno distrutto il commercio tradizionale: lo hanno costretto ad evolversi. Molti piccoli negozi hanno iniziato a vendere online, i centri commerciali hanno integrato strategia omnicanale, i grandi brand hanno investito in piattaforme ibride. È nato il click&collect, il live commerce, il drive-in digitale. L’esperienza d’acquisto non è morta, si è trasformata in esperienza phygital ovvero un’esperienza fisica e digitale assieme aprendo anche scenari che prima erano solamente locali ed oggi possono mostrarsi ad un pubblico internazionale.
In realtà quello che è successo è esattamente ciò che sta accadendo oggi con l’AI: chi ha resistito è rimasto indietro; chi ha adattato il proprio modello ha prosperato. Il negoziante che ha visto l’ecommerce come una minaccia ha chiuso. Quello che lo ha visto come un’opportunità, un’estensione del proprio servizio, ha guadagnato nuove fette di mercato, anche estero. Questa riprova ci insegna che ogni tecnologia non cancella l’esistente ma rimodula il contesto competitivo. Non è la tecnologia che uccide un’attività, ma l’incapacità di adattarsi al nuovo paradigma.
A fine Ottocento, quando le prima macchine a vapore e i telai meccanici cominciarono a sostituire il lavoro manuale degli artigiani, si gridò allo scandalo: “Questa è la morte della dignità del lavoro” dissero in molti. E non mancavano motivazioni concrete: chi aveva passato una vita a lavorare il legno, il ferro, il tessuto con sapienza e dedizione, vedeva improvvisamente il proprio mestiere ridotto a un processo ripetitivo, impersonale, automatizzato.
Ma anche in questo caso, la profezia apocalittica si rivelò inesatta. L’industrializzazione non uccise il lavoro umano, lo moltiplicò.
Nacquero nuove figure, nuove specializzazioni, nuove gerarchie professionali. Il lavoro artigianale non scomparve: cambiò ruolo, si ridusse in scala ma non perse valore. Anche oggi possiamo comprare una giacca di un famoso brand e pagarla 300 euro. Farsela fare da un artigiano su misura, scegliendone il tessuto, i bottoni, lo stile, la lavorazione può costare 3000 euro!
Esiste dunque ancora oggi un contesto in cui l’unicità e la qualità sono parametri molto più importanti della quantità.
Quella transizione industriale fu una delle più potenti leve di crescita economica e sociale della storia. Ha permesso la nascita delle classi operaie, l’urbanizzazione, i diritti sindacali, il concetto stesso di orario di lavoro regolamentato. Senza quel passaggio non ci sarebbero state le tutele moderne, l’accesso di massa al consumo, né la possibilità di lavorare fuori da un contesto agricolo o feudale.
Chi ebbe il coraggio di passare dalla paura all’organizzazione, dalla bottega alla fabbrica, non solo mantenne la propria dignità professionale, ma contribuì attivamente alla costruzione di un nuovo modello di civiltà. È proprio grazie all’industrializzazione e alla razionalizzazione della produzione che abbiamo potuto assistere a un’accelerazione senza precedenti delle scoperte scientifiche e tecnologiche, con un impatto diretto sul benessere collettivo: aspettativa di vita più lunga, maggiore disponibilità di beni, progressi nella medicina, nell’alimentazione e nei trasporti.
Non a caso, nei Paesi che non hanno conosciuto un processo industriale su larga scala, spesso per ragioni storiche, geopolitiche o strutturali, si riscontrano ancora oggi gravi problemi come la malnutrizione, la diffusione di malattie curabili e una più bassa aspettativa di vita.
Quando la crescita demografica non è accompagnata da un parallelo sviluppo nelle capacità di produrre beni e servizi, il sistema sociale entra in crisi. L’industrializzazione, con tutti i suoi limiti e contraddizioni, è stata uno degli strumenti più efficaci per superare questo squilibrio.
Oggi l’AI è vista con lo stesso sospetto: fredda, impersonale, disumanizzante; ma anche in questo caso, non è lo strumento in sé a determinare il cambiamento, bensì la capacità del sistema di assorbirlo, modularlo e incanalarlo verso nuovi significati sociali e professionali.
Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90, l’introduzione massiva dei personal computer negli uffici fu vissuta, ancora una volta, come una minaccia. Si diceva che i computer avrebbero azzerato il bisogno di personale amministrativo, che i documenti cartacei sarebbero spariti e che l’essere umano sarebbe diventato un semplice accessorio del software.
Una parte di verità c’è… Molte funzioni ripetitive e manuali sono state sostituite da fogli di calcolo, database, sistemi di gestione documentale. Ma ciò che si è perso in attività meccaniche è stato compensato dalla nascita di nuove responsabilità cognitive e digitali. L’informatizzazione ha dato origine a figure professionali che prima non esistevano: data entry specialist, sistemisti, project manager, responsabili IT, analisti funzionali, sviluppatori, ingegneri del software, ecc. ecc.
Il segretario è diventato office manager, il contabile ha imparato a usare software di contabilità, l’archivista si è evoluto con archiviazione digitale… Il lavoro è rimasto ma ha cambiato pelle.
Questo dimostra che ogni volta che una tecnologia entra in un’azienda, non distrugge l’intero ecosistema, ma ricombina le attività esistenti efficientandole. Alcune si contraggono, altre si espandono, altre ancora nascono da zero.
Ancora una volta l’AI oggi si presenta con un impatto simile a quello dell’informatizzazione: potente, trasversale, poco visibile a occhio nudo ma capace di ridefinire profondamente processi. E come allora il risultato dipenderà da una sola cosa: la disponibilità di ciascun professionista ad aggiornarsi.
Come abbiamo visto, la storia dell’innovazione è disseminata di previsioni disastrose che non si sono di fatto mai avverate, ma del resto tira molto di più un titolo catastrofista… Nei paragrafi precedenti, ci sono moltissime innovazioni tecnologiche che hanno portato la paura di un cambiamento, paura infondata dal momento che il cambiamento è stato sempre positivo. Una tecnologia nasce quando si sente l’esigenza di usarla… Inizio a pensare ad un martello solo quando ho l’esigenza di piantare un chiodo al muro, non prima.
Gli errori di previsione non nascono da incompetenza, ma da un errore metodologico ricorrente: si considera la tecnologia come agente attivo, e l’essere umano come passivo. In realtà se da un lato la tecnologia evolve, dall’altro l’uomo reagisce, si adatta, si reinventa; ed è proprio lì che le profezie catastrofiche vanno in frantumi.
Una delle evidenze più importanti ma meno comprese è che la maggior parte dei cambiamenti portati dall’AI non comporta la scomparsa dei ruoli, bensì la loro trasformazione interna. I job title restano, le mansioni si riscrivono. Cambiano le priorità, le modalità operative, gli strumenti e le competenze richieste.
Un grafico pubblicitario oggi non può più limitarsi a impaginare elementi statici, deve conoscere prompt visuali per generare bozze con DALL-E o Midjourney, deve saper modificare testi in ottica SEO e in alcuni casi interagisce con tool AI che ottimizzano campagne. La parte strategica però (messaggio, posizionamento e tono di voce) resta totalmente in mano all’umano perché è lui che ha l’intuizione ed è qui che si genera valore.
Un architetto un tempo concentrato unicamente su software CAD e vincoli edilizi, oggi può utilizzare AI generativa per creare varianti progettuali, esplorare nuovi materiali, testare soluzioni in ambienti virtuali pertanto non è sostituito, è potenziato!
Un copywriter non scrive più tutto da zero, orchestra il testo, combinando l’intuizione umana con lo sviluppo del testo con AI. Il suo ruolo si sposta dalla produzione alla cura e supervisione semantica; e nel frattempo nasce una nuova figura in questo contesto, quella del prompt writer ovvero colui che sa chiedere alle AI nel modo giusto per ottenere i risultati che si aspetta.
Anche nei settori apparentemente più esposti come il customer care o il supporto tecnico, l’AI gestisce i livelli base, ma l’umano si eleva ai livelli superiori dove è necessaria empatia, adattamento e negoziazione. I professionisti che un tempo si occupavano di ticket ripetitivi ora diventano formatori di chatbot, supervisori della qualità, designer delle esperienze di supporto e risolvono problemi di customer care dove l’AI non ha i toni e l’empatia per poterli risolvere.
L’AI non prende il tuo lavoro, prende la parte più ripetitiva del tuo lavoro e ti chiede di diventare qualcosa di più.
In questo scenario, chi si aggiorna, chi è disposto ad osservare l’AI come un solido alleato può salire di livello, non essere spinto fuori. L’unico rischio reale è restare identici a sé stessi mentre il mondo sta cambiando.
La reazione istintiva più diffusa verso l’AI è difensiva: “devo proteggermi”, “devo evitare che mi rubi il lavoro”. Ma questa è una mentalità statica, perdente. Il punto non è se l’AI ti sostituirà. Il punto è se tu saprai usarla a tuo vantaggio per diventare migliore.
Le AI generative, conversazionali, predittive, non sono entità nemiche, sono strumenti. Esattamente come lo sono stati l’elettricità, il computer, gli ecommerce, il motore a scoppio, il cloud. E come ogni strumento potente, il loro valore dipende da chi li maneggia.
Oggi un avvocato che sa usare ChatGPT o Claude per redigere una prima bozza, estrarre riferimenti giurisprudenziali o simulare una linea argomentativa non è meno competente: è più veloce, più scalabile e più competitivo.
Un designer che sa usare DALL-E per generare una decina di proposte visive in 30 secondi non è meno creativo, è più libero di scegliere, iterare e osare.
Un recruiter che usa modelli AI per estrarre pattern ricorrenti nei curriculum e verificarli con il proprio occhio critico non è superato: è potenziato.
L’AI non è una forza che ti spinge via. È una forza che ti affianca se glielo permetti e sei disposto a farla entrare nel tuo asset lavorativo. È proprio come accade in una squadra, l’intelligenza collettiva cresce se ognuno conosce il proprio valore. In questo caso l’umano resta insostituibile nei campi dove servono: intuito, empativa, visione strategica, responsabilità morale. Il futuro del lavoro non è umano o artificiale, è umano e artificiale insieme.
C’è un tratto comune che accomuna tutte le persone che hanno saputo attraversare indenni i grandi cambiamenti storici: una mentalità adattiva. Non necessariamente geniali, non sempre tecnicamente brillanti, ma capaci di leggere i segnali del cambiamento, accettarli e agire di conseguenza. Lottare contro qualcosa di inevitabile non è solo inutile è una perdita di tempo prezioso. Queste persone non hanno opposto resistenza: hanno studiato, osservato, sperimentato. Hanno compreso che il vero pericolo non è il cambiamento in sé, ma l’immobilismo.
Oggi più che mai questo principio torna centrale. In un mondo che evolve alla velocità della luce, il valore non è più nella posizione che occupi ma nella velocità con cui riesci a spostarti, a ricollocarti e a reinventarti. L’AI non premia chi ha una scrivania, ma chi ha visione e punisce, silenziosamente e inesorabilmente, chi si arrocca nella nostalgia di “come funzionavano le cose prima”.
Tante persone resteranno ferme perché si illudono che il cambiamento sia opzionale. Non lo è! Adattarsi è l’unica possibile via da percorrere. Resistere non è una strategia, è solo una lenta condanna. Eppure molti preferiscono negare, rifiutare, sminuire ciò che non conoscono nel perfetto stile italiano.
Serve oggi più che mai una postura mentale totalmente rinnovata. Non quella del “mi difendo” ma quella del “mi preparo”. Non quella del “mi basta quello che so”, ma quella del “voglio capire come posso trasformarmi e cosa posso diventare in meglio”.
Non serve essere ingegneri, serve essere curiosi, aperti e veloci nell’apprendere. Serve leggere, provare, farsi aiutare da un tool AI, domandarsi come potrebbe essere utile alla propria professione. Non tutto funziona, ma il solo fatto di provarci ti mette avanti rispetto a chi nemmeno si pone la domanda.
In fondo non è la tecnologia a decidere chi resta e chi va.
È la mentalità con cui la si affronta.
Chi ha mentalità adattiva, non solo sopravvive ma fiorisce!
Abbiamo visto come ogni rivoluzione abbia avuto il suo mostro da temere. Ogni volta si è temuto il peggio e ogni volta la realtà si è rivelata diversa: non meno lavoro, ma lavoro diverso. Non meno umanità, ma umanità distribuita, riscritta e talvolta costretta a uscire dalla zona di comfort.
L’AI non è diversa è solo più veloce, più profonda e più persuasiva, ma non è qui per distruggere il lavoro, è qui per dare una scossa a ciò che già non funzionava: ruoli deboli, ripetitività improduttiva, burocrazia inefficiente, protezioni immotivate. Fa paura perché mette a nudo l’inutilità, e perché rende evidente ciò che fino a ieri si poteva ancora fingere di non vedere.
Ma per chi ha talento, per chi ha voglia di imparare, per chi è pronto al cambiamento l’AI non è una minaccia, è una leva. Un’opportunità per salire di livello e per liberarsi del superfluo, qualcosa per ricentrarsi su ciò che conta davvero: l’intuizione, la progettualità, la relazione, la visione.
Il lavoro non sta morendo, sta mutando forma. Sta chiedendo a ognuno di noi: “Cosa sei disposto a diventare?”.
Chi saprà rispondere con lucidità, coraggio e intelligenza adattiva, non solo non perderà il proprio posto, costruirà qualcosa di nuovo e superiore.