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Italia – Paese che non premia chi sa fare ma chi si fa notare

by Simone Renzi / Giugno 8, 2025
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This post is also available in: English (Inglese)

Negli anni ho avuto modo di incontrare professionisti straordinari: ingegneri che scrivono codice elegante, imprenditori che creano soluzioni scalabili, musicisti che hanno suonato nelle più importanti sale e teatri da concerto di tutto il mondo; menti brillanti che nessuno, in Italia, sembra conoscere.

Perché non li troviamo sulle prime pagine dei giornali? Perché non vengono invitati a parlare a TEDx, non vanno in TV, non riempiono i feed su LinkedIn?

Non sto scrivendo questo articolo per esprimere lamentele ma per analizzare un paradosso tutto italiano: i migliori talenti spesso sono invisibili. E non per colpa loro!

Se non impariamo a riconoscere, valorizzare e supportare i profili davvero competenti, non avremo mai un ecosistema tech solido. Continueremo a premiare chi parla invece di chi costruisce. La mia non è una questione di invidia o di esclusione personale. È un problema culturale, strutturale e mediatico. E come tale, va affrontato con la giusta lucidità.

Il paradosso del talento invisibile

Il caso dei profili interdisciplinari

Il primo grande paradosso italiano riguarda i profili interdisciplinari: persone che possiedono competenze di alto livello in più ambiti, spesso considerati distanti tra loro, e che riescono non solo a integrarli, ma a creare valore nuovo proprio dalla loro contaminazione.
In un mondo ideale, queste figure dovrebbero essere ricercatissime. In parte lo sono ma non qui in Italia. Qui, chi padroneggia tanto la semiotica quanto l’intelligenza artificiale, viene guardato con diffidenza.
Come se sapere “troppe cose” fosse una colpa, un segnale di dispersione o, ancora peggio, di presunzione.

L’affermazione tipo quando si osserva un profilo multidisciplinare è sempre la stessa: “Chi fa troppe cose non fa bene né l’una né l’altra!”.

Mi chiedo se una baggianata del genere trovi motivazione nell’invidia oppure nella profonda sebbene inconscia coscienza di mediocrità di chi la pronuncia… Cosa ne sai quanto tempo quella persona abbia sottratto dai divertimenti, dalle uscite, dalla vita sociale per dedicarsi professionalmente a più sfere culturali? Cosa ne sai delle sue capacità, del suo talento naturale, della sua intelligenza? Come puoi dare per scontato che “non sia riuscito” se non ci hai neanche mai parlato?

In realtà, il profilo interdisciplinare è spesso l’unico in grado di affrontare i problemi complessi della contemporaneità. Perché il mondo reale non è diviso in zone. Un’applicazione per la salute richiede conoscenze di medicina, psicologia, ingegneria, UX e legislazione. Un sistema per AI può dover integrare semantica, cloud computing, modelli linguistici, gestione dei dati e normativa GDPR. E chi meglio di un professionista che ha attraversato più domini può progettare soluzioni realmente efficaci?

Il problema è che l’Italia continua a ragionare per compartimenti stagni, come se fossimo ancora nella cultura dell’albo professionale, del “titolo”, della specializzazione unica. Il sistema universitario stesso tende a costruire figure verticali, iper-specializzate in un solo linguaggio, una sola branca, un solo strumento.
Le aziende, dal canto loro, cercano “figure ibridate” solo dopo che il problema è esploso, ma non sanno né riconoscerle né valorizzarle quando bussano alla porta. E i media, incapaci di categorizzarle, le ignorano del tutto.

Il risultato? Chi eccelle in più ambiti resta ai margini, schiacciato da un sistema che preferisce l’etichettatura all’intelligenza, il rassicurante specialista all’innovatore trasversale. Viene considerato “atipico”, “difficile da collocare”, e quindi, nella peggiore delle ipotesi, non viene collocato affatto.

Eppure nella storia dell’innovazione, i veri cambiamento sono sempre arrivati da menti ibride: Leonardo da Vinci era ingegnere e pittore, Alan Turing era matematico e filosofo, Steve Jobs era tecnico e umanista, Jaron Lanier è informatico e musicista. Nessuno di loro avrebbe avuto spazio oggi in Italia, in un contesto che chiede di “essere qualcosa di solo”, e di farle entro una casella LinkedIn.

Il talento interdisciplinare non è solo raro: è sistematicamente escluso dal discorso pubblico italiano. Non perché non valga, ma perché non rientra in nessuno schema noto e lo schema qui vale più della sostanza.

Per questa ragione, molti di questi talenti agiscono in silenzio, costruiscono cose straordinarie senza pubblicità, creano prodotti innovativi senza clamore. Alcuni emigrano verso Paesi in grado di valorizzarli per ciò che sono e che meritano di rappresentare in una società meritocratica e sana. Altri si chiudono. Altri ancora, i più tenaci, costruiscono attorno a loro un proprio ecosistema. Ma tutti, inevitabilmente, pagano il prezzo di un sistema che non sa vedere al di là del proprio naso.

Se vogliamo che l’Italia diventi davvero un Paese innovatore, dobbiamo cominciare da qui: smettere di avere paura delle complessità, e imparare a valorizzare chi la abita con naturalezza.

Forti tecnicamente, umili comunicativamente

Un’altra categoria di talenti invisibili, forse la più numerosa e silenziosa è quella dei professionisti forti tecnicamente ma umili nella comunicazione. Persone che sanno fare in modo impeccabile, ma non lo dicono. Non fanno personal branding, non hanno tempo né voglia di registrare ogni giorno due video su Youtube né rincorrere i trend di LinkedIn con frasi motivazionali o pseudo-ispirazioni da Master Coach e volete sapere perché? Perché preferiscono dedicare il loro tempo a produrre e creare qualcosa utile per il mondo anziché spendere quel tempo per produrre chiacchiere da bar.

Questi profili non si vendono, non si mettono in vetrina e per questo vengono spesso scavalcati da figure meno competenti ma più abili nel raccontarsi. È un fenomeno noto, ma ancora troppo poco discusso: nella percezione pubblica, chi comunica bene vale di più, anche se produce meno valore reale.

L’equazione è veramente una forma di perversione mentale: “Se non ti esponi, forse non hai niente da dire”.

Totalmente sbagliata! Perché chi ha veramente qualcosa da dire, spesso non ha bisogno di dirlo. Lo fa. Lo costruisce. Lo lascia funzionare. Chi ha passione per l’ingegneria, la matematica, la fisica, l’informatica, vive in un ecosistema fatto di debugging, precisione, fatica, attenzione ai dettagli. Non ha come priorità costruirsi una narrativa, ma costruire sistemi. La sua voce è il suo codice. Il suo contributo è nel repository GitHub, nell’infrastruttura cloud, nello script che ha automatizzato un processo per 30000 utenti e che nessuno vede… Ma che moltissimi utilizzano.

Eppure queste persone non emergono, non vengono premiate, spesso non vengono nemmeno cercate. Nei processi di selezione, chi ha 30.000 follower viene visto come “influente”, chi pubblica ogni giorno è percepito come “attivo”, chi è presente ovunque come “dinamico”. Ma il programmatore che in silenzio ha ottimizzato un motori di ricerca semantico, o che ha containerizzato un’intera infrastruttura con una precisione chirurgica, non riceve alcun riconoscimento pubblico. Perché non è si è venduto.

La cultura italiana, in questo, è ancora profondamente legata all’idea che la visibilità coincida con il valore. In un contesto così tarato, chi è umile viene letto come debole, mentre chi è rumoroso viene scambiato per autorevole.

Ma l’autorevolezza, quella vera è un’altra cosa. È la capacità di risolvere problemi senza teatrini. È la coerenza tra quello che si dice e quello che si consegna. È il rispetto per la complessità, per i dati, per l’etica del lavoro.

Paradossalmetne in molti ambienti aziendali italiani, le competenze hard sono date per scontate. Si cerca la “scintilla”, il “feeling”, la “bella presentazione”. E così si finisce per scartare ingegneri straordinari solo perché non si raccontano bene. O peggio, si costringono questi stessi professionisti a simulare uno storytelling che non appartiene alla loro indole, trasformandoli in una caricatura.

Questo ha due conseguenze devastanti:

  1. Da un lato, le aziende perdono talento vero, assumendo chi appare invece di chi sa.
  2. Dall’altro, i tecnici più validi si ritirano, sfiduciati da un mondo che li chiede performanti nella forma, ma non nella sostanza.

Se vogliamo davvero evolvere come sistema economico e culturale, dobbiamo ripensare totalmente il rapporto tra competenza e comunicazione. Non si tratta di demonizzare il marketing personale, che anzi può essere utile e legittimo, ma di smettere di utilizzarlo come unico metro di giudizio quando è la cosa che dovrebbe contare meno. Bisogna iniziare a dare voce a chi sa fare, anche se non ha voce, perché dietro ogni prodotto che funziona, ogni servizio che non si rompe, ogni algoritmo che migliora la vita di migliaia di persone, c’è quasi sempre qualcuno che lavora in silenzio e che invece meriterebbe di essere ascoltato.

I 7 motivi per cui in Italia i talenti veri restano invisibili

Dopo aver descritto le tipologie di talento invisibile viene naturale chiedersi: perché questa figure in Italia non emergono?
Non è una questione di caso o di sfortuna. È un sistema intero: sociale, economico e culturale, che tende a neutralizzare il merito autentico, soprattutto quando non si conforma ai modelli dominanti.

Ho identificato 7 motivi principali…

1. La cultura dell’apparenza ha sostituito quella del contenuto

In Italia la forma conta troppo spesso più della sostanza. Si premia chi comunica meglio, non chi ha più competenza. Un pitch accattivante, un profilo ben scritto, un CV scritto da un copywriter possono valere più di anni di esperienza sul campo. Il risultato? Chi lavora sodo e comunica poco viene sistematicamente superato da chi “sa vendersi” ma poi sul campo non è capace di combinare nulla.

Se non parli di te, nessuno parlerà di te. Ma chi fa bene, spesso ha altro da fare che perdere tempo ad autopromuoversi.

2. L’iperspecializzazione è premiata, la visione trasversale è sospetta

Il nostro sistema educativo e professionale forma specialisti verticali, da incasellare in ruoli precisi e chi è più dotato non può essere visto come qualcuno che è riuscito in più fronti. Chi sa fare più cose viene visto con diffidenza: “ma quindi cosa sei davvero?”.

In altri Paesi del mondo, chi integra competenze diverse viene chiamato innovator o system thinker. In Italia è un “confuso”.

Il talento ibrido non è valorizzato perché non è etichettabile. Ma sta proprio lì la sua forza e chi deve valutarlo spesso non ha competenze per cogliere l’opportunità.

3. La meritocrazia? Solo un sistema per riempirsi la bocca e lanciare frasi populistiche

Molte selezioni (di personale, bandi, premi) sono guidate da relazioni personali, anzianità o appartenenza a cerchie. Chi ha davvero valore, ma non conosce nessuno, resta fuori dalle dinamiche che contano.
La bravura in sé non è mai sufficiente. Serve il contatto, la spinta, la raccomandazione. E chi non cerca scorciatoie, spesso resta nell’ombra.

Il talento che non è connesso rischia di non essere nemmeno visto.

4. Il sistema mediatico è culturalmente impreparato al monto tech

I giornalisti generalisti non sanno distinguere una libreria open source da una strartup di facciata. Invitano chi “parla bene”, non chi realizza soluzioni complesse.
Le storie che fanno notizia non sono quelle dell’ingegnere che ha realizzato qualcosa che ha impatto sul benessere del mondo, ma quelle del ventenne che dice di “aver fondato una startup su blockchain” ma non ha ancora in mano nemmeno una bozza di prodotto funzionante.

Il linguaggio tecnico viene filtrato dai media come “noioso” o “difficile”, quindi ignorato.

5. L’innovazione è ancora vista come un’eccezione, non come una regola

In molti contesti italiani, l’innovazione vera fa paura. Automatizzare processi, rendere trasparente l’efficienza, eliminare la burocrazia significa minacciare privilegi, ridurre margini, rompere equilibri. Chi propone soluzioni efficaci viene percepito come “pericoloso”, e spesso boicottato da chi vive di rendita o di inefficienze.

Il talento che semplifica la complessità, in un sistema costruito sulla complessità, è un problema politico.

6. Il successo silenzioso non fa notizia

Chi fa carriera senza farsi notare, senza sponsorizzazioni, senza esposizione mediatica, non viene raccontato. Non interessa. L’Italia ama le narrazioni estreme: o il “falso genio autodipinto” da copertina o il “fallito” da commiserare. La figura del professionista serio, competente, etico e riservato non rientra nel racconto pubblico.

Chi lavora bene ma in silenzio, in Italia non viene narrato. E cià che non si narra, non esiste.

7. Non esiste una filiera strutturata che intercetti e valorizzi il talento autentico

In assenza di incubatori tecnici veri, di scouting culturale serio, di mentorship disinteressata, i talenti devono crearsi da soli l’occasione, la visibilità e il percorso.

Chi è brillante ma privo di strumenti comunicativi o di rete, resta fuori dal flusso. In altri Paesi esistono acceleratori, grant, università ponte. In Italia, spesso solo il caso o la resilienza personale alla fine fanno la differenza.

Il talento non accompagnato da relazioni strategiche, oggi ha un tasso di sopravvivenza bassissimo.

In sintesi

Il problema non è che in Italia manchino i talenti; il problema è che non abbiamo un sistema capace di individuarli, ascoltarli, coinvolgerli, premiarli e dargli lo spazio pubblico che meriterebbero. Il risultato è un paradosso: abbiamo persone straordinarie che producono valore reale, ma nessuno le conosce finendo per investire il loro tempo e la loro straordinaria energia mentale in altri paesi del mondo producendo ricchezza. Nel frattempo in Italia visibilità, riconoscimenti, finanziamenti e attenzioni mediatiche finiscono nelle mani di chi si racconta meglio, non di chi costruisce ricchezza, perché siamo solo un popolo di chiacchieroni ciarlatani.

Se continuiamo così, perderemo il meglio che abbiamo.

Cosa accade in altri Paesi: dove il talento silenzioso viene riconosciuto.

L’invisibilità dei talenti tecnici e interdisciplinari non è una condizione universale, grazie a Dio! In molti Paesi con ecosistemi digitali più maturi, esistono filiere, strumenti e una cultura che permettono anche ai profili più silenziosi, riservati o aticipi di emergere, essere ascoltati, finanziati, valorizzati ed esposti mediaticamente.

Stati Uniti d’America: scouting sistemico e cultura del risultato

Negli USA, l’intero ecosistema dell’innovazione: dalle università ai fondi VC, è costruito per scovare chi sa fare, anche se non sa parlare.

Le università come MIT, Stanford, Berkley monitorano le idee, non i like. Se uno studente sviluppa una soluzione interessante e scalabile, lo mettono in contatto con incubatori, advisor e potenziali investitori.

I fondi di Venture Capital non si affidano a quanti video ha pubblicato su YouTube il founder e quanti like ha ricevuto; esaminano i prototipi, le metriche, la scalabilità tecnica. È molto frequente che un CTO introverso diventi co-founder di una startup di successo perché bravo in quello che serve.

Esistono grants e borse per innovatori che lavorano in silenzio: non serve una fanbase, basta un’idea ben costruita e documentata.

In sostanza là dove in Italia diresti “devi conoscere qualcuno”, negli USA esiste un principio meritocratico attivo: “if you build it and it works, someone will notice” (se costruisci qualcosa e funziona, qualcuno se ne accorgerà).

Germania: valorizzazione della competenza ingegneristica

In Germania, il concetto di Fachkompetenz (competenza tecnica specifica) è culturalmente centrale. Non si giudica una persona dalla sua visibilità ma dalla qualità del suo lavoro.

Le aziende tedesche premiano figure tecniche di medio-lungo corso, anche se poco visibili, purché dimostrino rigore metodologico e capacità realizzativa.

I percorsi di crescita sono pensati per chi consegna valore, non per chi si racconta bene nei meeting. Il sistema di formazione duale (università + esperienza aziendale) permette di far emergere anche i profili non accademici, purché competenti.
Un ingegnere software o un progettista embedded che scrive poco ma progetta bene, in Germania ha una carriera. In Italia, spesso no.

Paesi Bassi e Nord Europa: cultura della trasparenza e inclusione del merito

In Olanda, Svezia, Finlandia, la trasparenza e l’inclusione meritocratica sono elementi centrali nella selezione e nella valorizzazione dei talenti.

I sistemi pubblici e privati di incubazione e sostegno alle startup sono spesso open-call, con valutazione tecnica e imparziale, non relazionale. Le aziende sono strutturate per favorire la collaborazione tra figure atipiche, non per forzarle dentro ruoli predefiniti.

Le università mettono in connessione studenti e aziende attraverso progetti pratici, facilitando l’emersione di chi costruisce davvero. In contesti del genere il talento non è un problema di comunicazione: è un dato oggettivo da intercettare e nutrire.

E in Italia?

In Italia, al contrario le università raramente dialogano con il mondo del lavoro in modo pratico e profondo. I fondi di investimento tendono a cercare figure “carismatiche”, con un pitch pronto e una buona immagine pubblica. Le azienda non sanno integrare profili aticipi: chi non si adatta ai formati, viene escluso.

Il problema non è che l’Italia non abbia talenti, li ha eccome. Il problema è che non ha strumenti culturali, strutturali e mediatici per individuarli, ascoltarli, aiutarli a crescere.

Nei Paesi più avanzati, il talento silenzioso è una risorsa da coltivare. In Italia è un anomalo da ignorare. Ed è per questo che troppo spesso se ne va.

Le conseguenze di questo silenzio

Ignorare i veri talenti non è solo una mancanza etica. È una STRATEGIA SUICIDA, soprattutto in un’economia basata sempre più sulla conoscenza, ‘sull’innovazione e sulla capacità di adattarsi. Quando un Paese non valorizza chi sa fare, non solo perde capitale umano, ma si condanna a stagnare, a inseguire anziché guidare.

Chi ha visione, metodo, competenza e spirito costruttivo non aspetta all’infinito. Dopo anni di frustrazione, sceglie di andarsene. E lo fa in silenzio senza proclami.

La fuga dei cervelli di cui tanto si parla non è solo quantitativa, ma qualitativa: se ne vanno i profili migliori, più duttili, più etici, più determinati. Il danno è doppio: perdiamo valore e rafforziamo la concorrenza.
Ogni talento invisibile che va via è una startup che non nascerà, una soluzione che non verrà sviluppata, um giovane che perderà un mentore.

Quando si seleziona in base alla visibilità o all’allineamento culturale, le imprese finiscono per circondarsi di figure rassicuranti ma non trasformative. Il risultato è un’organizzazione che funziona “abbastanza”, ma che non cresce, non innova, non cambia. E che resta vulnerabile. Le aziende senza talento vero sono aziende che restano in piedi solo finché non arriva una crisi o un concorrente serio che ha talenti e si rinnova.

Se i capitali seguono la visibilità e non la sostanza, l’intero ecosistema degli investimenti si droga. Si finanziano progetti con grande storytelling ma scarso impatto reale, e si ignorano soluzioni solide, utili, ben progettate ma “non sexy” perché scarsamente presentate e svestite. Il risultato è un mercato distorto, dove vince chi sa vendere non chi sa fare.

Ogni euro sprecato in una startup fuffa è un euro in meno a un progetto concreto che avrebbe potuto cambiare le cose.

Un sistema che esalta i guru da palco, i LinkedIn influencer che non fanno altro che pubblicare frasi becere con una bella firma “silhouettizzata” con il ricalco di Illustrator, i formatori seriali senza track record reale, non generano cultura tecnica ma solo chiacchiere da bar che non servono a niente.

Chi studia, chi vuole costruire qualcosa, chi sogna di fare impresa vera non trova riferimenti concreti, e spesso si arrende o si omologa al modello vincente: visibilità prima di reali competenze.

In questo modo il talento escluso non resta solo ferito, diventa sfiduciato e chi perde fiducia smette di proporre, di insegnare e di guidare. Si crea una spirale perversa: più talento silenzioso viene ignorato, meno altri avranno il coraggio di emergere. Si abbassa il livello generale e si alimenta un sistema che prima la mediocrità ben vestita.

Siamo un Paese con un capitale intellettuale enorme: ottime università, una cultura tecnica forte, creatività diffusa, artigiani digitali di altissimo livello. Ma non sappiamo trasformare questo patrimonio in un ecosistema moderno, perché chi sa fare viene lasciato ai margini. Il risultato è un’Italia che non innova mai e finisce sempre per rincorrere e mentre gli altri aumentano il passo noi continueremo a restare sempre indietro.

Il talento che sparisce è una perdita collettiva, è un’occasione mancata per tutti. Per un’impresa che avrebbe potuto crescere, per una scuola che avrebbe potuto formare meglio, per il Paese che avrebbe potuto iniziare ad invertire la tendenza di appassire. Perdere talenti oggi significa non avere futuro domani. A chi lasciamo il tessuto produttivo Italiano? Al TikToker che fa la live mentre gioca alla Playstation?

Cosa possiamo fare: cinque strade per valorizzare i talenti veri

Finora abbiamo denunciato un sistema ma non è sufficiente, vanno proposte alternative praticabili…

Chiunque lavori con passione nel mondo dell’innovazione, che sia un imprenditore, sviluppatore, docente o manager, può contribuire a invertire questa tendenza.

1. Creare mappe indipendenti dei talenti silenziosi

Serve uno strumento di mappatura pubblica e meritocratica che raccolga i progetti, i contributi open-source, le soluzioni reali sviluppate da professionisti italiani, anche e soprattutto se non sono famosi. Un GitHub italiano con filtri per impatto, originalità, complessità. Un archivio che faccia emergere chi lavora davvero, e non solo chi comunica. In altre parole serve un radar!

2. Riconoscere chi costruisce valore, non chi fa chiacchiere da bar

I media, i premi, gli incubatori, le università devono rivedere i criteri con cui selezionano le storie da raccontare. Bisogna iniziare a premiare chi ha creato qualcosa che funziona, algoritmi testati sul campo, infrastrutture digitali solide. Il personal branding va bene, ma non può più essere il metro principale di selezione. Un progetto funzionante vale più di 1000 video con chiacchiere da bar, riconosciamolo pubblicamente e diamo a Cesare ciò che è di Cesare.

3. Favorire modelli di mentorship etica, non di cooptazione

I megliori devono diventare mentori. Chi ha costruito valore reale deve aiutare altri talenti a crescere. Ma serve un modello etico, dove il riconoscimento si basi sul merito e non sul legame personale.
Incubatori, fondazioni, cmaere di commercio, possono avviare reti di mentorship tecnica aperte e trasparenti. La luce va puntata sul vero talento.

4. Inserire etica e multidisciplinarietà nei percorsi formativi

Le scuole e le università devono iniziare a insegnare non solo nozioni, ma ponti tra discipline. Un progettista del futuro non può non conoscere i fondamenti dell’etica, dell’AI, del design inclusivo. Cosi facendo si formano generazioni capaci di ibridare, innovare, scegliere e non solo di eseguire.

5. Cambiare il racconto culturale dell’eccellenza

Il cambiamento deve essere narrativo. Dobbiamo raccontare storie di talento silenzioso, non solo di scalate finanziarie e exit milionarie. Serve un nuovo immaginario dove il valore non coincide con l’esposizione, ma con la competenza, il metodo e la responsabilità. È tempo di dire, pubblicamente e con forza che l’Italia possiede talenti, ma nessuno li sta ascoltando.

Quando il silenzio non è più un errore ma una condanna

Abbiamo parlato di talento, di invisibilità, di sistemi che non funzionano. Abbiamo proposto delle soluzioni, elencato best practice, suggerito direzioni possibili…

Ma la verità cruda è che in Italia, tutto questo probabilmente non accadrà mai.

Non per mancanza di idee. Non per scarsità di talenti. Ma per un fatto ancora più radicato: la maggioranza non lo vuole.

L’Italia è un Paese in cui le priorità sono rovesciate, dove si accetta passivamente la mediocrità come norma. Dove si fa carriera non grazie a quello che sai, ma a chi conosci. Dove la competenza è vista con sospetta e paura, l’etica come un ostacolo, la cultura come un vezzo inutile.

Un Paese in cui la gente non vota per cambiare, ma scende in piazza per una partita, in cui si finanziano influencer che vendono fuffa e si ignorano tecnici che risolvono problemi veri. In cui la corruzione non è l’eccezione, ma il modello operativo accettato da intere filiere produttive e istituzionali.

L’Italia oggi non è un sistema che ha sbagliato direzione, è un sistema che non vuole cambiare. E quando un sistema non vuole cambiare, il cambiamento prima o poi arriva comunque, ma non dall’interno; arriva un crollo. Da una crisi. Da una distruzione radicale.

Forse allora, solo quando non resterà più nulla da proteggere, né privilegi da difendere, né rendite da mantenere, qualcuno ricomincerà a costruire e ci si comincerà ad aggrappare ai talenti, gli unici che hanno delle vere capacità di potersi misurare con una ricostruzione così complessa. E lo faranno, come al solito, non per farsi vedere, ma perché non ci sarà rimasto più nessun altro disposto a farlo e forse, da quel cumulo di cenere, sorgerà finalmente un Paese che riconosce i suoi migliori talenti. Non per convenienza, ma per necessità…

Simone Renzi
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